venerdì 11 novembre 2011

Seconda lettera di qualcuno ad una musa, rossa.

Io ti vedo in giro,
ti giuro,
mi giro e ti vedo;
mi fa strano.

Tu non dovresti essere lì,
dovresti essere altrove,
lontana,
centinaia di kilometri.

Preso dallo sconforto mi avvicino,
ti guardo,
e sei così diversa tanto che non sei tu:
ma che diamine,
penso,
i miei occhi mi fanno scherzi da preti.
Non c'è neanche una chiesa vicino a me.
Nemmeno una suora da cui piangere,
nemmeno un chirichetto da prendere in giro,
non c'è nessuno.

Il tempo è talmente fermo
che una foglia è dritta davanti a me,
galleggia a mezz'aria;
la sposto con una mano sennò mica ti vedo.

E sei di nuovo lì,
che non mi vedi,
che non mi conosci,
che non sai chi sono.
Dovresti saperlo,
io ti penso di tanto in tanto,
mi vieni in mente
più ora che non siamo più,
che prima che eravamo,
fosse anche che eravamo solo chiacchiere.

E il distintivo?
Non c'è,
non mi distinguo,
sono confuso nell'aria ferma perché tutto è fermo
tranne te che continui a muoverti,
te che te ne sbatti
del fatto che io ho imparato a bloccare il mondo pur di trovarti.

E sei veloce,
con quelle gambette impazzite che non si distinguono:
diamine io sono due metri,
almeno un metro di gambe le avrò,
come cazzo fai a correre più forte di me?
Ma ce la fai,
straordinaria,
e poi ti fermi e io ti raggiungo,
il tuo volto cambia i lineamenti,
i tuoi capelli colori,
sembri pure più grassa.

Non sei tu, tu non sei grassa.
Maledette ciccione che corrono,
mi confondo e io perdo di vista quello che cerco,
TI perdo di vista.

Ma tanto passa un giorno,
passa un'ora,
e sei di nuovo da un'altra parte,
sembra quasi che mi segui,
tanto per darmi fastidio,
dato che alla fine non sei mai tu.

Ero ubriaco e ti vedevo a malapena,
sono sobrio e ti distinguo fra la gente come se tu ci fossi veramente,
anche se non ci sei
mai.